Riceviamo e pubblichiamo:
"PER LATIANO
Ci siamo. Si entra nel vivo della Settimana Santa. A tre giorni dalla domenica di Pasqua il nostro paese, come tante altre piccole realtà del meridione d’Italia, si ferma, osserva e trae godimento dalla sacralità dei silenzi. Pochissimi giorni. Pochissime ore. Attimi. Tutto si tinge di un’umana teatralità, anche la visione più sacra del mistero pasquale.
In questi giorni in tanti ci riscopriamo credenti, riempiamo le chiese, le strade, i marciapiedi. Quel giovedì santo, che, erroneamente, definiamo “dei sepolcri” è l’inizio di tre giorni unici. Giorni, che, fortunatamente, ciclicamente ritornano ogni anno, ripresentandosi sempre con la stessa veste. Un costume resistente al tempo fuggente, alle foto prive di significato, alla spasmodica ricerca di sé come individuo nel senso più vuoto del termine. Una tradizione, che resiste all’innovazione radicale di tutto alla ricerca dell’assolutamente nuovo, per poi apprezzare, o meglio, osservare con profondo rispetto il “vecchio”. Il classico.
Le chiese dagli altari arricchiti da composizioni floreali, talvolta essenziali in onore della semplicità, di cui spesso siamo privi, a ricordarci che anche lì alberga il nostro culto del bello. Silenzio e ancora silenzio. Forse preghiera. Forse stupore. Forse abitudine. Occasione buona per attraversare il paese a piedi, privo della frenesia, che copre gran parte delle nostre giornate. Riscopri la terra, la tua terra, che per svariate ragioni o volontà abbandoni e non sai se ci ritornerai spesso. Se ci ritornerai via via sempre meno, perché le circostanze ti portano ad esserne allontanato.
Mentre cammini scopri che qualcosa è cambiato, in peggio o in meglio questo non ti è dato sapere, ma lo puoi solo capire e interpretare più o meno bene. Quello è il segno del tempo. Del tuo tempo, del tempo della donna, che, per forza di cose, si divide tra lavoro, casa e famiglia. Dei circoli, in cui si riunivano gli anziani, che oggi sono sempre più vuoti. Del verde appassito dei parchi, destinati a riempirsi con l’arrivo della bella stagione. Del cemento delle grandi incompiute, sulle quali si fondano serrate dispute di politica locale. Tutto quanto pieno di umanità. La stessa, che traspare dalla processione del giorno successivo ai cosiddetti “sepolcri”: la processione dei Santi Misteri.
Chi almeno una volta non ha provato a riprodurre dentro di sé, a voce o simulandone i movimenti, il suono secco del tamburo, che segue quello delle note lunghe emesse dal suono della tromba, che annunciano l’arrivo del corteo per le strade del paese. Cala immediatamente il silenzio di fronte a quelle note. Poche, è vero, ma senza ombra di dubbio più significative di tutte quante le immagini impresse nella nostra mente, legate a questa nostra antichissima tradizione. Un incedere lento, cantilenante, intervallato da preghiere e marce funebri, alcune delle quali conosciute dai latianesi come le note di quella sera. Di quella processione. Entriamo in scena tutti, ognuno con il proprio ruolo. Chi indossa la veste consacrata della propria confraternita. Chi la propria divisa. Chi il vestito migliore, riservato o acquistato appositamente, per partecipare o soltanto assistere a questo spettacolo annuale della nostra umanità. Le luci appese sotto le porte delle case. Le fiaccole lungo i bordi delle strade o sui marciapiedi. Tutti in attesa che “passino i misteri”. Tutto scorre e si conclude nelle prime ore del giorno seguente con “l’Addolorata”.
Le prime luci dell’alba. Eppure la gente si riversa per le strade deserte come se nulla fosse, come se l’ora fosse un’ora comune. Il profumo del pane appena sfornato, perché da noi la cucina è la cucina. Quella buona, per intenderci. L’odore del caffè dei bar, che lavorano già a pieno regime. Le edicole chiuse con le colonne dei quotidiani ancora imballati davanti alle porte d’ingresso. Il silenzio gradualmente si dissolve. Riemerge il frastuono di sempre, il “buongiorno” di sempre. Tuttavia si respira aria di festa.
In quei precisi istanti un’altra pagina del nostro sud è stata quasi completata, portata a compimento da ognuno di noi. Ognuno con la propria parte. Ognuno con il proprio stato d’animo. Per sentirsi, almeno per pochissimi giorni all’anno, un popolo unito, privo di invidie e di sfide senza quartiere. Perché in fondo è solo qui, tra le pieghe delle nostre centenarie tradizioni, che possiamo riscoprire un briciolo della nostra piccola “grande bellezza”.
PS: Mi preme ringraziare chi abbia avuto la pazienza e le benevolenza nel donare il suo tempo alla lettura di questo brevissimo pezzo. Un tributo dovuto nei confronti della nostra tanto cara, amata, odiata e discussa terra.
f.to: Pierpaolo Volpe".
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